L'abbanniata. Voci e suoni dai mercati
“Lu putiaru socc'havi abbannia”- Stefania Martinez
- 22 febbraio 2023
Gli antichi mercati siciliani erano gremiti e rumorosi. Sopra il brusio e il tramestio della folla si levavano le abbannìate, con una scansione implicitamente cadenzata, ma non concordata, tra i venditori.
Con voci stentoree e ritmi musicali un vero coro annunciava le ricchezze del mare e le bontà della terra: “Opi, opi, opiii. Cchi belli opi chi haiu!” (opi sono le boghe, tipico pesce dei nostri mari), e di rimando “cchi tennera, cchi dduce, e ccomu la voi… ‘a ggira, ‘a nivia, u vroccolo, i sparaceddri” (che tenera, che dolce, come la vuoi, la bieta, l’indivia, il cavolfiore, i broccoletti).
Abbannìare non è facile da tradurre in italiano. Il verbo che gli si avvicina è bandire: annunciare con avviso pubblico, diffondere. L’abbannìata è un annuncio pubblico e insieme pubblicitario. Forse la pubblicità più antica. Ancora oggi, qualche abbannìata si può ascoltare per le strade, nei mercati, anche se alle voci naturali gli ambulanti ormai preferiscono i megafoni e gli altoparlanti.
Ogni abbannìata è originale, non ce n’è una uguale all’altra, e comunque se anche le parole sono le stesse l’interpretazione di ogni mercante è assolutamente personale e caratterizzata. L’abbannìata perché sia efficace deve avere musicalità e ritmo.
“A robba abbanniata è mezza vinnuta” (la merce pubblicizzata e mezzo venduta) recita un antico proverbio; un altro professa: “u’ putiaru socc’havi abbanìa” (il negoziante mostra quel che ha), metafora per dire che ciascuno attraverso parole e gesti mostra di essere quel che è. Non ce ne vogliano gli ambulanti trapanesi ma, forse, l’abbannìata più famosa, è di un ambulante palermitano venditore di sale. Se non altro perché la sua abbannìata, audacemente accostata alla nascita del canto jazz, è stata portata in teatro da Renzino Barbera, massimo interprete della “sicilianità”, insieme a Pino Caruso.
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